sabato, 29 gennaio 2005 - 18:11
"(...) noi non guardiamo gli
occhi (...) come guarderemmo una petruzza d'opale o d'agata. Noi sappiamo che
il piccolo raggio che li irida o i grani di brillante che li fanno scintillare
sono il solo elemento visibile a noi di un pensiero, di una volontà, di una
memoria, dove risiede la casa familiare che noi non conosciamo, gli amici
prediletti che invidiamo. Il possesso di quel mondo ignoto, così difficile,
così restìo: ecco quel che dà valore allo sguardo, assai più della sua bellezza
materiale (...)". (Proust, Alla ricerca del tempo
perduto)
Già...cos'è che ci spinge a rimanere prigionieri di due occhi, di
uno sguardo? E' ciò che c'è dentro, è ciò che non possiamo vedere, che non ci è
concesso sapere; è il mistero a noi precluso che serbano nel loro profondo
intimo. Non è il colore, la tonalità ad affascinarci. Sappiamo che la
luminosità, l'opacità, l'iridescenza di uno sguardo è la maschera di una
caverna in cui noi non possiamo entrare. Non poter giungere alla conoscenza di
questo iperuranio di
segreti, non poterne fare parte è ciò che veramente ipnotizza il nostro stesso
sguardo. Due anime che cercano di scoprirsi l'un l'altra, ma entrambe in ombra
dietro a una luce.

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