sabato, 4 ottobre 2008-21:54
Si sa che il luogo in cui abitiamo è
sempre l’ultimo che visitiamo. L’abitudine ci costringe a non prestare
attenzione al quotidiano e la frenesia nel voler scoprire, viaggiare, visitare
e conoscere ci porta sempre più lontano di dove siamo già. Forse è che nel
nostro tentativo di evadere dai problemi e dalla routine, rincorriamo mete
sempre più lontane, quasi che fuggire fisicamente corrisponda ad allontanare i
nostri pensieri. Senza dubbio, esplorare nuove terre è affascinante, ma se
potessimo imparare a dare importanza anche al ritorno da questi viaggi, e non
solo alla loro durata, scopriremmo che tornare a casa può essere un percorso
altrettanto suggestivo.
Personalmente,
ho attraversato l’Europa fino ad arrivare in Oceania. Ho studiato fuori casa,
cambiando regione e città, ma nonostante io viva da sempre in Umbria, nel punto
esatto in cui le montagne dell’Appennino poggiano i loro piedi, è solo dopo più
di vent’anni che mi sono accorta di abitare a Sigillo. E me ne rendo conto ad
ogni rientro, ogni volta con lo stesso stupore.
È in questi momenti che penso a quanto l’universale bellezza del “mio” Parco
dovrebbe essere raccolta da tutti. Il fascino delle forze naturali in cui vivo
da sempre è così esuberante che vorrei gridare al mondo infelice di venire a
ritrovarsi proprio qui, dove io abito, dove io mi sto ritrovando.
Il
Parco che circonda me e la mia abitazione è il Parco di Monte Cucco, rinomato
per il turismo dei piloti di deltaplano, per la particolarissima Spaccatura
delle Lecce, per la flora e la fauna ancora in vita. Abbiamo, dunque, già tutti
gli ingredienti per un piatto da non lasciarsi scappare. Ma ciò che più mi lega
al mio paese, a Sigillo, è il piedistallo del Monte, ovvero la campagna che lo
circonda. Muta aspetto ad ogni stagione, come una donna cambia abito, sempre
azzeccato, sorprendente. Come in un teatrino, indossa maschere sempre diverse
nell’arco della giornata: è fresca di mattina, bagnata di rugiada, quando gli
alberi se ne stanno immobili intorpiditi dal mattino e gli uccellini aspettano
l’alba; si stiracchia ai primi raggi di sole, la campagna di Sigillo, e nel
pomeriggio è ormai indaffarata nel suo lavoro di natura; si corica la sera,
scrollandosi i movimenti del giorno appena passato.
Alcuni lettori
potrebbero obiettare: il locus amoenus è solo un’invenzione
letteraria e gli uccellini cinguettano allegri solo nelle fiabe. E capisco
tutto questo, perché la società del ventunesimo secolo è abituata a grandi
città, al grigio, ai rumori fastidiosi, alla fretta, al respiro affannato dal
traffico e dall’aria malata e riconosce la natura spontanea solo nei
pellegrinaggi fuori Nazione, negli itinerari lontani dall’hic et nunc.
E’ comprensibile, ma non veritiero. Sigillo esiste, la “mia” campagna esiste,
qui come altrove in Italia e nel mondo. La mia fortuna è essere nata già in
questo deittico “qui” e l’unica cosa che posso fare è condividerlo con gli
altri, anche solo immortalando in uno scatto alcune ore della giornata in cui
la campagna avverte che quello è uno spettacolo che non si ripete.
Quando
ero piccola mia madre mi descriveva la nebbia di prima mattina come il velo
della montagna e, così, io ero convinta che in quei momenti Monte Cucco si
sposasse con il cielo e che io facessi parte delle damigelle che, con i campi
intorno a me, sollevavano lo strascico.
Ora
che non sono più una bambina continuo a percepire la campagna intorno a me come
una persona che comunica i suoi stati d’animo, le sue scoperte, le sue gioie e
le sue disgrazie attraverso le più varie manifestazioni. Così, quando percorro
la strada bianca che dal monte mi inoltra negli spazi aperti, nell’ora in cui
il sole bacia le colline di rosa e di arancione, so che vuole congedarsi da me
anche in quel giorno con un ultimo spettacolo rivelatore ed è in quel momento
che sento il bisogno di scattare una foto, perché so che la campagna è vanitosa
e vorrebbe che tutti la vedessero vestita così, di luce e di magia. Le foto
sono il suo biglietto da visita per il resto del mondo.
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