giovedì, 16 marzo 2006-19:57
Fin dalla preistoria, l’uomo si è
chiesto chi fosse, perché vivesse e grazie a chi. Questo desiderio di conoscenza
ha portato con sé l’insicurezza (chi sono veramente io?), l’angoscia per il
futuro (cosa sono chiamato a fare?) e la paura di un giudizio dall’alto (come
agire giustamente?). Risultato: dolore e sofferenza, dubbi e tedio. Conseguenza
di ciò, la ricerca, a volte “matta e disperatissima”, delle risposte.
All’incirca verso la metà della sua
vita, anche Dante si è deciso per questo cammino, o meglio, ha trovato una
risposta alle domande e ha voluto renderla pubblica: la
Divina Commedia.
Non posso soffermarmi a descrivere
quest’opera, tanto ultraterrena è la sua grandezza.
Tuttavia, qualche giorno fa stavo
leggendo il primo canto. Sappiamo tutti molto bene la storia della selva, della
valle e del colle e delle tre fiere.
Ora, l’interpretazione più gettonata
delle tre fiere le definisce come l’una, la lonza, materializzazione della
lussuria (“una lonza leggiera e
presta molto,/ che di pel maculato era coverta”), l’altra, il
leone, come materializzazione della superbia (“Questi parea
che contra me venisse/ con la test’alta e con rabbiosa fame”) e l’altra ancora,
la lupa, come materializzazione dell’avarizia, intesa come brama di
possesso (“Ed una lupa, che di
tutte brame/ sembiava carca nella sua magrezza”).
D’altro canto, l’Inferno di Dante è
un’oltretomba tripartita (del resto il numero tre è stato, fin dall’antichità,
il numero perfetto). Eccezion fatta per la selva, l’antinferno (al quale sono
condannati gli ignavi), il limbo (destinato ai non credenti, non battezzati e
spiriti magni) e il VI cerchio (degli eretici), tutti gli altri peccati si
possono raggruppare in tre categorie: incontinenza, violenza, frode. Ora mi
chiedo, cos’è dunque l’incontinenza? Non è forse l’impossibilità di frenare i
propri impulsi? Significato molto simile a quello dell’avarizia della lupa.
Cos’è la violenza? Un modo aggressivo di
reagire, sia fisicamente sia moralmente: il leone.
E la frode? Non è altro che l’inganno,
di se stessi o degli altri. La lonza è un animale immaginario, dunque inganna
la mente, tradisce l’immaginazione!
Perciò, com’è spontaneo il parallelismo
tra le tre fiere e la suddivisione dell’inferno dantesco. Forse, dunque, Dante,
attraverso le tre fiere, può mostrarci sia le debolezze dell’uomo peccatore e
le tentazioni che sviano dalla retta via, sia il programma del suo Inferno. Un
parallelismo e qualitativo e tecnico.
Un’altra osservazione che mi ha colpito
è stata quella del cammino di Dante attraverso la selva, poi la valle e infine
la visione del colle. Dante ci descrive la selva come un luogo buio e pericoloso
(“selva oscura […]selvaggia e aspra e forte”), dunque, la sede
del peccato, il buio della ragione. La valle, invece, sembra essere la via che
porta verso la luce intravista sul colle, cioè la salvezza, ovvero, un cammino
di espiazione (“Ma poi ch’i’ fui al
piè d’un colle giunto/ là dove terminava quella valle/ che m’avea di paura il
cor compunto”). Il colle non
è altro che la salvezza e il mezzo di purificazione dell’anima, dove la ragione
prevale sulle passioni, la verità sulla menzogna e dove la forza d’animo la fa
da padrona sulle debolezze umane; il colle è la luce (“guardai in alto e vidi le sue spalle/ vestite già de’ raggi
del pianeta/ che mena dritto altrui per ogne calle/ Allor fu la paura un poco
queta”).
Forse Dante voleva anticiparci il percorso
che la sua opera avrebbe seguito, che l’uomo avrebbe dovuto affrontare per
arrivare alla salvezza: selva=inferno, valle=purgatorio, colle=paradiso.
Ora, non vogliate giudicarmi peccatrice
di superbia o di superficialità per questo mio post, dal momento che, per amore
della letteratura, di Dante e della scrittura, ho semplicemente voluto parlare
di tutte e tre, come del resto faccio sempre nel mio blog. Tutto ciò è pura
fantasia di una studentessa.

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