sabato 25 febbraio 2012

Sorda



Insegnami a non ascoltare
l’eco del mio passato,
la voce incatenante delle Sirene
dei miei ricordi.
Dimmi e ascolterò
come riportare sui binari
del presente quella mente
che di te mi descrive
dettagli di una dolorosa
piacevolezza.
Spiega all’anima come
disprezzare ciò che in testa
mi tortura, con che cera
e con che ali sorvolare
il labirinto, lontano dal fuoco.
Chiedi ai miei pensieri
di non ingannare il mio cuore.
Parla finché con gli occhi chiusi
io possa vedere che tu
non sei più in me.

(31 marzo 2009)

giovedì 16 febbraio 2012

Un amore di carta











I ricordi abitano la mia mente,
sembrano seguire una melodia
nel mio futuro, nel mio passato,
senza un vero tempo, niente.

Mi sorridono, mi chiamano
ecco, seguo il loro ritmo.
A volte ad un bivio mi accorgo,
non sono loro che mi amano.

Mi circondano pareti di carta,
quel sorriso è una nuvola,
gli occhi due fili d'erba,
la mia realtà di ricordi è morta.

Una storia intera nel mio pugno,
si spegne al mio risveglio,
ma è un dolce segreto eterno
che ogni volta vive nel mio sogno.


(5 maggio 2010)

Il Navigatore (fine)



--Il mare aveva tradito Marijo, il suo amato fedele, mettendosi a flirtare con il vento e questo tradimento, questo contatto passionale fra l’acqua, l’umidità e i vortici d’aria avevano anticipato il monsone, il quale non aveva perso tempo e, adulando le onde, seducendo le nuvole, avvolse il mare di una passione violenta e bagnata, scaricando tutt’intorno al não piogge furenti. Eccitato, il mare gonfiò le sue armi di seduzione, le onde, che raggiunsero altezze inimmaginabili, quasi a voler abbracciare l’uragano che cresceva come ponte fra il cielo innamorato e  l’acqua stuzzicata. Al centro di questo tradimento, la nave di Marijo, confusa, si piegava sempre più pericolosamente e da una parte e dall’altra, in avanti, all’indietro, le vele lacerate dal vento impetuoso, l’albero maestro atterrato dalle onde frenetiche. Ora Marijo capiva le gocce di sale, comprendeva le lacrime di avvertimento e guardava affascinato quella comunione che lo circondava e scusava la sua amata, perché, sì, non aveva colpa che si era lasciata andare ad un’altra passione. In effetti lui non aveva saputo ascoltarla quella volta, non aveva compreso le sue parole e dunque era giusto che lei lo punisse a quel modo e per farsi perdonare, il corpo interamente bagnato dal suo amore e dall’altro, lo sguardo spaventato da tanta violenza, il cuore stretto nell’impotenza, così vicino alla fine prese la decisione più romantica, la prova d’amore più esplicita che poteva dedicare al suo amore, per farle capire che, ancora, anche così, continuava ad amarla. Spinto da una brusca inclinazione dello scafo al bordo della nave, non cercò appigli, ma si lasciò sbattere fra le onde, ora con il cuore ebete di affetto, lo sguardo perso di un amante che si lascia accarezzare, finalmente unendosi a pieno con la sua adorata, parlandole per l’ultima volta, scusandola, scusandosi, baciandola con passione ora che sapeva che l’avrebbe avuta per sempre e, amandosi così con il mare, raggiunse ciò che due amanti pongono a capo di tutti i loro desideri, abbracciarsi per l’eternità.  




FINE--

Ti ricordo













Ti ricordo in ogni momento
Quando dentro piango e i miei occhi sorridono

Ti ricordo mentre attraverso il tempo
E lo spazio s’immobilizza

Ti ricordo quando l’aria estiva
Mi scalda le labbra,
quando la sera mi mostra le stelle,
quando il dovere mi chiama al lavoro,
quando attraverso la strada asfaltata

Ti ricordo mentre una volpe
Si nasconde nell’erba,
mentre intorno il mondo
cade a gocce nei tuoi occhi
e io in loro


(20 luglio 2007)

Il Navigatore (parte 4)



--Quando Marijo si sentiva solo o deluso dalla sua vita terrestre, o semplicemente quando gioiva per qualche soddisfazione, il mare era sempre lì ad aspettarlo per accogliere le sue parole, comprenderle nei suoi abbracci sinusoidali, caricarle di significato gonfiandole nelle sue onde e rispedire a riva la sua risposta, stendendola sul bagnasciuga ai piedi del suo migliore amico. Allo stesso modo, Marijo era presente quando l’acqua e il suo sale avevano bisogno di uno sfogo e gli si concedeva totalmente, lasciando il suo corpo disteso fra le onde e permettendo a queste di sussurrargli nelle orecchie tutti i loro segreti. 
Camminando sul ponte, lungo il bordo della piccola nave, interrogava le onde. Queste, permalose, frustavano lo scafo schizzandogli il viso di sale. “Mi stai schiaffeggiando?”, pensava Marijo, rivolgendosi al mare. E si accarezzò la guancia, raccogliendo un po’ di amorevole umidità. Sfregò l’indice con il pollice guardandoli da vicino, come a voler analizzare le gocce e scoprire attraverso queste il messaggio che la sua amante le stava mandando. Ma l’unica cosa che poté concludere fu che la sua pelle assorbiva più in fretta di quanto immaginasse e che l’acqua penetrava fra le screpolature della sua mano come la pioggia in un terreno arso dalla siccità. Così, non capiva che quelle gocce erano lacrime, le lacrime che solo una donna innamorata del suo uomo riesce a piangere con tanta sincerità.
Fu in quell’attimo che Marijo, alla sua sinistra, riuscì a vedere distintamente, alla luce del tramonto, il profilo di Capo Verde. A passo spedito raggiunse il timone e, fra mille incomprensibili calcoli mentali e rotte e coordinate, virò a manca con un gesto deciso delle mani, incrociando l’avambraccio destro sul sinistro più volte, fino a indirizzare il suo não a sud-est, verso Rio Congo, verso il finis terrae, verso le Indie. La nave era in ritardo, a fine settembre avrebbe dovuto trovarsi già ben oltre Elmina. Ma, si sa, per due amanti il tempo non esiste e anzi, se esistesse, scorrerebbe molto più lentamente, permettendogli di rimanere il più a lungo possibile vicini, inseparabili. Così Marijo si era lasciato trasportare dal suo amore e non dai venti, frenando la velocità della nave per godere fino in fondo ogni singolo istante che il tempo gli concedeva di passare lì, al centro della sua amante, fra le sue braccia, fra i suoi sospiri, i suoi sguardi carezzevoli, i suoi occhi turchini, la sua pelle vellutata. Ma il tempo non aspetta gli amanti, non si frena e trascina dietro di sé tutto il suo mondo, senza adattarsi alle necessità di nessuno, e con sé porta la notte e il giorno, i mesi, le stagioni e, soprattutto per un navigatore, i venti. Il tradimento è sempre in agguato, per due persone che si amano. Per quanto amore ci possa essere, per quanto profondo esso sia, l’imprevisto è elemento inevitabile nella vita degli esseri viventi, così come nella vita della natura e, fra i venti, i monsoni sono quanto di più imprevedibile le stagioni possano offrire, sono il periodo dell’ambiguità, il volubile che si fa tangibile. Ecco perché, nonostante non fossero nemmeno giunti i primi giorni di ottobre, il monsone invernale, quell’anno, aveva deciso di arrivare, inaspettato, violento, carico di nubi tronfie e scure, bagnate ed estese. L’acqua del mare liberava tutto il calore che aveva accumulato durante l’estate, offrendolo senza pudore alla fredda atmosfera al di sopra della sua superficie. Aspirando così l’umidità, formava una coperta di nuvole sopra la quale i venti cominciarono a giocare fra di loro ad altissima velocità dando alle nubi un movimento a spirale, e sotto la quale lei, l’acqua del mare, diede inizio a una danza a imitazione della ballata superiore[...]--

Recensire...



lunedì, 9 marzo 2009-12:43 

La grandissima scrittrice Nicla Morletti ha recensito il mio romanzo!
Una nuova occasione per crescere con l'aiuto di grandi personaggi della letteratura italiana!
Un GRAZIE sincero ed onorato a Nicla.





    LA RECENSIONE DI NICLA MORLETTI


Un bel libro dallo stile fluido e accattivante. Il "memoriale di un cuore errante" che si fa ricordare.
Resta impressa la figura di Kalindi, che ci appare come una visione, mentre uno stormo di poiane si alza in volo nella campagna granadese e le notti sono troppo brevi e troppo fredde nel momento in cui qualcosa, dentro, lacera il cuore.
Un libro denso di sensazioni, una metafora affascinante, un viaggio alla ricerca del sé, verso quel sentiero indefinibile tracciato dai sensi e dall'anima che conduce alla scoperta dell'io più profondo.

Efesto in Umbria- quando gli Dèi si arrabbiano


giovedì, 20 novembre 2008-23:44


Efèsto si asciugò il sudore che gli bagnava tutto il viso. Nella fucina la temperatura era altissima, al punto che, non potendo essere contenuta tutta nel laboratorio, rendeva l’atmosfera intorno all’Etna estremamente calda, fino a diffondersi nelle regioni più a Sud della penisola. I Ciclopi intorno a lui lavoravano sodo, soprattutto da quando l’eccellente Cedalione se ne era andato.
La fatica di Efèsto era aggravata dalla sua deformità: essere claudicante non aiutava gli spostamenti da un focolare all’altro, dall’incudine al maglio. Tuttavia, Efèsto era un gran lavoratore, il più grande fabbro ferraio che l’Olimpo avesse mai avuto e lavorare il ferro tutto il giorno, forgiare i sandali alati per Hermes, gli scudi per Zeus, le cinture e le armature per le divinità, i pezzi di ricambio per il carro di Helios, le frecce per Eros e miriadi di spade e battacchi gli teneva la mente occupata e gli impediva di rimuginare sulla cattiveria di sua madre Era, la quale, vergognandosi della sua bruttezza alla nascita lo aveva scagliato giù dall’Olimpo procurandogli quelle deformità che tanto aggravavano il suo duro lavoro. Fortunatamente aveva trovato una moglie adorabile, una donna che sapeva amarlo così com’era. Afrodite era il suo nome ed Efèsto riusciva a chiudere il laboratorio a sera tarda solo pensando che avrebbe poi raggiunto la sua sposa.
Quel giorno era una data speciale: il loro anniversario di matrimonio. Così, tra spade e scudi, Efèsto stava cercando il tempo per modellare anche un prezioso anello per Afrodite. Prese dal magazzino una lastrina di oro bianco, vi disegnò sopra un motivo floreale, praticò i fori e segò via le aree da togliere. Marcò il bordo con la lama di un seghetto e regolarizzò i solchi decorativi. Modellò fiori e gambo con un bulino e, per completare la sua opera d’amore, piegò la lastrina da anello saldandone le estremità. Il tocco finale: praticando un foro in uno dei fiori incisi, riuscì ad incassare un meraviglioso rubino.
Soddisfatto della sua opera, strofinò l’anello con della carta ruvida e lo incastrò in un piccolo scrigno di velluto. Quale luce avrebbe visto negli occhi di Afrodite quella sera!
Così, fantasticando sulla gioia che avrebbe recato alla moglie, Efèsto portò a termine il lavoro in fucina, spronando con allegre incitazioni i suoi aiutanti Ciclopi. Trasportato dall’entusiasmo, riordinò anche la Stanza delle Spade, posizionandole in ordine dalla più piccola alla più grande, dalla meno tagliente a quella più pericolosa, dalla più sottile alla più pesante.
Eccitato, decise di rincasare in anticipo e, prima che il carro di Helios ebbe trainato il Sole all’estremità dell’Occidente, chiuse la fucina e si affrettò verso casa.
Questo fu il suo errore, o forse l’errore fu di non essere mai rientrato in anticipo. Perché quando fu nei pressi della sua dimora, i suoi pensieri furono interrotti da un bisbigliare sommesso: era davvero Afrodite quella donna che accarezzava suo fratello Ares? Erano le sue braccia che cingevano la vita di un altro uomo?
Se avesse potuto, Efèsto si sarebbe trasformato in pietra, più dura dei suoi metalli, per non dover subire oltre quel dolore che affinava la lama nel suo cuore. Ma, poiché era il Dio dell’artigianato e non delle metamorfosi, tramutò in fretta quella sofferenza in una rabbia cieca e distruttiva. Tuttavia, anziché lanciarsi addosso ai nemici, tornò sui suoi passi e, deciso, riaprì la fucina pronto a realizzare un’arma degna della sfida che i suoi occhi avevano scoperto.
Mise a soqquadro l’intera Stanza delle Spade e, furioso, zoppicava da un’incudine a un’altra. E fu proprio mentre assemblava i materiali e le varie parti della sua invenzione che, riproponendosi nella sua mente l’immagine dell’adultera, in un accesso d’ira prese a scagliare qualsiasi arma le sue mani trovavano per il laboratorio. La collera era ad un livello tale che sembrava materializzarsi nelle sue braccia e dotarlo di una forza erculea, tanto da far arrivare spade e martelli a miglia di distanza.
La leggenda vuole che uno di questi atterrasse proprio ai piedi del Monte Cucco, in Umbria, una regione così lontana dalla rabbia di Efèsto, ma sufficientemente vicina per la sua violenza. Penetrò nella piccola muraglia di rocce che protegge la vallata e l’anfiteatro di lecci alle sue spalle, tanto che Helios, il Dio del Sole che tutto vede, gli diede il nome di “Spaccatura delle Lecce”.
Ancora oggi è possibile immaginare come la furia del Dio abbia potuto fendere la roccia, ammirando la cornice evocativa di pietra grigia e lo scrigno verde in primavera e bruciato in autunno che fa capolino dalla “spaccatura”, quasi volesse capire, curioso, il motivo di tanta impetuosità.
Si sa, i miti greci hanno sempre affascinato i lettori più fantasiosi e la “Spaccatura delle Lecce” offre un’occasione pittoresca per poter gustare la storia non solo nei libri e nelle letterature, ma anche nel paesaggio che ci circonda. Se poi si aggiunge tutto il contorno, l’opportunità diventa davvero allettante. La serendipità è una peculiarità dei viaggi e delle scoperte e il Parco di Monte Cucco intende offrire questo all’esploratore più intrepido come al forestiero più pacato.
La rivelazione è duplice, un po’ come la Sacher Torte: si assapora già con gli occhi quella glassa di cioccolato fondente che lascia intendere una cremosità quasi sensuale e le nostre papille gustative si preparano a mordere un concentrato di cacao, quando vengono sorprese dall’inconsueto strato di marmellata. Sulle prime ci si stupisce, poi ci si lascia coinvolgere da quel vortice di sapori che solo la Sacher sa amalgamare.
Allo stesso modo, si arriva nel Parco per contemplare l’opera di un Dio nella roccia e poi si scopre un intero mondo da esplorare. Le attrattive del Parco sono molteplici, ma non mi riferisco alle “classiche” passeggiate fra i sentieri tracciati, o alle diverse specie di piante e di animali efficacemente descritte nei pannelli lungo la strada. Ognuno sa trovare i suoi incanti e le sue magie, le sue scoperte, in linea con le proprie ricerche. Entrando nel Parco, oltre la Spaccatura, smarrendo la “diritta via” e costruendosi un proprio percorso, ci si accorge di come la natura di quel monte sia in grado di darci particolari e sfumature che le cartine non riportano.
Scoprire il Parco non è prerogativa di naturalisti romantici o geologi studiosi. E’ ritrovare in noi un istinto primordiale come può essere quello che ci spinge a cercare e a motivare o semplicemente “otiare” fra gli alberi e le pietre per comprendere quanto sia spaventosamente scioccante scoprire la perfezione di una foglia, il mutare dei colori della vegetazione, individuare quello scoiattolo che solo nei cartoni animati si era conosciuto, sentire la vita non più sotto una pelle umana, ma anche fra le cortecce rugose.
Siamo così abituati alla vita civilizzata che dimentichiamo che intorno a noi la natura continua ad esistere, a seguire il proprio corso, i propri ritmi. Si dice tanto che l’uomo ha sopraffatto l’ambiente ma, poiché il padrone alla fine è l’unico vero servo, continuiamo ad essere noi che dipendiamo da stagioni scandite dal territorio, noi che dobbiamo adattarci agli sbalzi di temperatura, ai pendii, alle curve delle colline, alla composizione dei terreni, al profilo delle montagne.
Il Parco del Monte Cucco “non si è ritrovato a Sigillo”, ma è Sigillo che vi si è incastrato. Così come è la spada di Efèsto che si è conficcata nella muraglia di rocce e non la Spaccatura che gli è corsa incontro.
Siamo noi che possiamo muoverci verso i doni che il paesaggio ci regala e la Spaccatura delle Lecce è un omaggio davvero raro.

Gli uccellini cinguettano davvero


sabato, 4 ottobre 2008-21:54


Si sa che il luogo in cui abitiamo è sempre l’ultimo che visitiamo. L’abitudine ci costringe a non prestare attenzione al quotidiano e la frenesia nel voler scoprire, viaggiare, visitare e conoscere ci porta sempre più lontano di dove siamo già. Forse è che nel nostro tentativo di evadere dai problemi e dalla routine, rincorriamo mete sempre più lontane, quasi che fuggire fisicamente corrisponda ad allontanare i nostri pensieri. Senza dubbio, esplorare nuove terre è affascinante, ma se potessimo imparare a dare importanza anche al ritorno da questi viaggi, e non solo alla loro durata, scopriremmo che tornare a casa può essere un percorso altrettanto suggestivo.
Personalmente, ho attraversato l’Europa fino ad arrivare in Oceania. Ho studiato fuori casa, cambiando regione e città, ma nonostante io viva da sempre in Umbria, nel punto esatto in cui le montagne dell’Appennino poggiano i loro piedi, è solo dopo più di vent’anni che mi sono accorta di abitare a Sigillo. E me ne rendo conto ad ogni rientro, ogni volta con lo stesso stupore.
È in questi momenti che penso a quanto l’universale bellezza del “mio” Parco dovrebbe essere raccolta da tutti. Il fascino delle forze naturali in cui vivo da sempre è così esuberante che vorrei gridare al mondo infelice di venire a ritrovarsi proprio qui, dove io abito, dove io mi sto ritrovando.
Il Parco che circonda me e la mia abitazione è il Parco di Monte Cucco, rinomato per il turismo dei piloti di deltaplano, per la particolarissima Spaccatura delle Lecce, per la flora e la fauna ancora in vita. Abbiamo, dunque, già tutti gli ingredienti per un piatto da non lasciarsi scappare. Ma ciò che più mi lega al mio paese, a Sigillo, è il piedistallo del Monte, ovvero la campagna che lo circonda. Muta aspetto ad ogni stagione, come una donna cambia abito, sempre azzeccato, sorprendente. Come in un teatrino, indossa maschere sempre diverse nell’arco della giornata: è fresca di mattina, bagnata di rugiada, quando gli alberi se ne stanno immobili intorpiditi dal mattino e gli uccellini aspettano l’alba; si stiracchia ai primi raggi di sole, la campagna di Sigillo, e nel pomeriggio è ormai indaffarata nel suo lavoro di natura; si corica la sera, scrollandosi i movimenti del giorno appena passato.
Alcuni lettori potrebbero obiettare: il locus amoenus è solo un’invenzione letteraria e gli uccellini cinguettano allegri solo nelle fiabe. E capisco tutto questo, perché la società del ventunesimo secolo è abituata a grandi città, al grigio, ai rumori fastidiosi, alla fretta, al respiro affannato dal traffico e dall’aria malata e riconosce la natura spontanea solo nei pellegrinaggi fuori Nazione, negli itinerari lontani dall’hic et nunc. E’ comprensibile, ma non veritiero. Sigillo esiste, la “mia” campagna esiste, qui come altrove in Italia e nel mondo. La mia fortuna è essere nata già in questo deittico “qui” e l’unica cosa che posso fare è condividerlo con gli altri, anche solo immortalando in uno scatto alcune ore della giornata in cui la campagna avverte che quello è uno spettacolo che non si ripete.
Quando ero piccola mia madre mi descriveva la nebbia di prima mattina come il velo della montagna e, così, io ero convinta che in quei momenti Monte Cucco si sposasse con il cielo e che io facessi parte delle damigelle che, con i campi intorno a me, sollevavano lo strascico.
Ora che non sono più una bambina continuo a percepire la campagna intorno a me come una persona che comunica i suoi stati d’animo, le sue scoperte, le sue gioie e le sue disgrazie attraverso le più varie manifestazioni. Così, quando percorro la strada bianca che dal monte mi inoltra negli spazi aperti, nell’ora in cui il sole bacia le colline di rosa e di arancione, so che vuole congedarsi da me anche in quel giorno con un ultimo spettacolo rivelatore ed è in quel momento che sento il bisogno di scattare una foto, perché so che la campagna è vanitosa e vorrebbe che tutti la vedessero vestita così, di luce e di magia. Le foto sono il suo biglietto da visita per il resto del mondo.


Cafè a Sigillo


mercoledì, 7 maggio 2008-12:23 


Il mio sogno una settimana fa ha viaggiato nel tempo e nello spazio. Il Caffè Letterario di una dama ottocentesca è comparso nella cripta di Sigillo. Luci morbide e calde, tavolini rotondi in ferro battuto fermi come ballerini nella loro posizione artistica. Al centro di ogni tavolino, una piccola composizione di rose e attorno quattro tazze da thè e un piccolo vassoio di pasticcini.
La presentazione del mio libro…Quando salgo i pochi scalini ed entro in quel piccolo mondo del passato e delle mie fantasie tutto si preannuncia magico e nella mia testa ha inizio una melodia inaspettata. Mi sento una sposa circondata da sincere ammirazioni. Tra le braccia un mazzo di fiori, nei miei occhi gli occhi lucidi degli ospiti e stringo le mani a me più care, quelle che hanno accompagnato davvero il mio cuore. E tutto è un sogno, al punto che temo non sia la realtà. Meno male che vengono scattate delle foto, future testimoni di un evento reale. E mi sento una sposa…il fotografo ufficiale, il relatore che spiega davvero il mio libro e sembra essere sincero in tutti quei complimenti, il thè che viene servito, gli attori che mi interpretano, la fievole musica, i fiori, il Sindaco… E stringo questo ricordo, questo dono che tutti, ieri, mi hanno fatto… tra loro ho visto Alice, era bambina e stupefatta guardava incredula il suo sogno che si materializzava intorno a lei…e stata succedendo davvero.
Quindi ad Antonella il sindaco, ad Oriana, ad Arte e Dintorni, a Chiara, Bibi e Marco i tre meravigliosi attori che sanno rendere ogni scritto un’opera speciale, al paziente relatore, alle mie maestre, ai miei professori, a mia madre, ai miei compagni, a tutti coloro che hanno reso vivo il mio sogno, GRAZIE.

Bacio Perugina


giovedì, 24 aprile 2008-17:02

Premetto che:
1. Non sono una traduttrice professionista
2. Non sono una critica letteraria
3. Non sono una vera scrittrice
Ma dal momento che questo blog è nato sulla e per la letteratura e tutto ciò che c'è di affine, posso prendermi (almeno qui) la libertà di discutere di queste materie, una certa licenza d'autore insomma.
Con queste premesse posso dire che la scrittura (e, quindi, la letteratura) non è solo quella firmata "Dante" o "Dan Brown", nè è solo quella che viene proposta a teatro o nei licei. Dove voglio arrivare? Ai Baci Perugina (e non è pubblicità occulta!). Ebbene sì, essi sono per me quasi un connubio celestiale: cioccolato e parole, cacao e inchiostro, palato e mente. Ora, è vero che molte volte, sotto l'argento puntellato di stelline blu troviamo frasi scontate o estremamente "mocciane". Altrettante volte, però, la Nestlè ci regala spunti interessanti, spesso di autori autorevoli.
Così, poichè fra le mie mani si scioglie un Bacio al giorno, mi imbatto più volte in nuove scoperte. Considerando anche la natura fortemente limitata della mia cultura e memoria, le novità sono per me frequenti.

Oggi proporrei questa velina:
"Un baiser c'est un secret qui prend la bouche pour oreille" di Edmond Rostand.
Non so chi siano i traduttori che lavorano per la Perugina, ma, chiunque essi siano, hanno leggermente allontanato la versione italiana dall'originale:
"Il Bacio è un segreto sussurrato a una bocca anzichè ad un orecchio". Immagino che la maiuscola in "bacio" sia uno stratagemma adottato per richiamare, chiaramente, il prodotto commerciale. Comunque, a parte questo, nonostante la frase sia resa in un italiano corretto e semanticamente piacevole, vorrei sottolineare, per rispetto nei confronti di uno scrittore, che Rostand cercò di dirla in un modo un po' diverso, del tipo:
"Un bacio è un segreto che scambia la bocca per orecchio".
Ma convengo che la prima resa sia senza dubbio più poetica.
Resta il fatto che questa velina ci regala un'immagine interessante, con la quale non fatichiamo molto a concordare. Pensiamo solo che si usa lo stesso verbo "sentire" per le orecchie e per le sensazioni che un bacio può darci.
Colgo l'occasione dei Baci Perugina per ricordare ai lettori che Edmond Eugène Alexis Rostand è stato un celebre poeta e drammaturgo francese, passato alla storia soprattutto come l'autore dell'opera teatrale
"Cyrano de Bergerac".

Nascondino


mercoledì, 5 marzo 2008-13:33


Il destino ci ha resi vicini
nello spazio
e il tempo non ci è
meno amico.

La mia finestra, meschina,
non mi nasconde
le pareti del tuo corpo
come tu mi hai mostrato
quelle del tuo cuore.

Posso leggerti quasi ovunque
e ogni cosa
sembra un filo che fa capo
alla stessa matassa,
sembra un labirinto con
un’unica uscita
ed un’unica entrata.

Tutto vuole portare a te,
ma ti nascondi.


(13 febbraio 2008)

L'odore del cielo


martedì, 12 febbraio 2008-17:02


L’odore degli alberi. L’odore dell’azzurro del cielo. Non il profumo dell’aria fredda di una giornata limpida in inverno, proprio l’odore dell’azzurro. E’ particolare, è fresco, è corroborante e stordisce. Sembra impossibile che un colore possa avere un profumo, eppure sono sicura che in quel parco io ho sentito il profumo del cielo e l’odore del verde delle foglie. All’improvviso, entrata in quel mondo qualcosa ha amplificato le potenzialità dei miei sensi, in particolare dell’olfatto che ha preso a funzionare all’ennesima potenza, facendomi scoprire il profumo delle sfumature. Fa venire le lacrime agli occhi, perché sovrasta, supera la mia umana capacità di sopportare le emanazioni dall’esterno. Profuma un po’ di neve, l’azzurro del cielo. E il verde degli alberi profuma un po’ di te, ma non del tuo ricordo o della tua pelle, proprio di te, del tuo cuore. Forse è per questo che aspirando l’odore del parco, il parco aspirava me, stringendo il mio cuore in un involtino di foglie. Ed è in questo epifanico momento che ho pensato “ti amo”. Che sia quell’odore che me l’ha suggerito, fors’anche a tradimento, in un momento di debolezza, non so. Ma è quel profumo che mi ha rivelato con uno schiaffo: sei innamorata. Ripeto, con uno schiaffo, dunque al di fuori di qualsiasi romanticismo e dolcezza, ma anzi con tutto il carico di dolore e di travaglio.

Il Navigatore (parte 3)


lunedì, 11 febbraio 2008-15:04 


"[...]Perchè, sì, Marijo aveva l’abitudine di allegare all’elenco delle informazioni strettamente funzionali l’umore del mare. No, non il rumore, come il lettore potrebbe correggermi. Bensì, l’umore. Quando si è innamorati, si passa il tempo a contemplare il viso dell’amata, facendo attenzione ad ogni piccola increspatura della bocca, ad ogni incurvatura degli occhi. Così Marijo non abbandonava nemmeno per un istante il suo mare, le sue onde e ogni sera riportava sul registro la pazienza che quel giorno l’acqua aveva portato, il suo sentimento gioioso quando la brezza giocava con essa, la sua paura incontenibile quando la tempesta infuriava. Quella sera, accanto alla lista, sul bordo destro del registro, Marijo scrisse: “nervoso”. Il mare era stato nervoso per tutta la giornata. Le onde si erano infrante continuamente sulla sua nave, ma egli percepiva questo malcontento soprattutto dalla schiuma. La bianca corona che soleva accompagnare le onde del mare nei giorni ventosi era, generalmente, compatta e continua, cingeva cioè l’onda in tutta la sua lunghezza. Quel giorno, invece, le creste si mostravano frastagliate e fastidiosamente frizzanti, febbricitanti di ira e scontrose.
Poiché l’acqua è solita essere lo specchio del cielo e, dunque, anche il riflesso del suo carattere, Marijo aveva cercato fra le nubi il nervosismo che il mare rispecchiava, ma non ne aveva trovato tracce. Dopo aver consultato la cartina, il percorso, calcolato le miglia rimanenti e non avendo trovato traccia nelle terre oltremare di nervosi presagi, si era convinto a chiedere la causa di tanto malessere direttamente alla fonte delle sue ricerche. Il dialogo con il mare era, per Marijo, una forma consueta di comunicazione. Egli chiedeva, il mare rispondeva e non erano rare le volte in cui era il mare stesso a chiedere in modo tale che fra i due si era venuta a creare una sintonia costante e una conversazione che poche volte subiva una pausa. Entrambi gli interlocutori erano soddisfatti del compagno con cui parlavano e, per questo, mai si erano traditi.[...]"

Il Navigatore (parte 2)


mercoledì, 6 febbraio 2008-19:25


--Egli bramava la sua amante giorno e notte e quando gli era stata concessa l’occasione di viverla aveva deciso che l’avrebbe fatto da solo. Solo lui avrebbe goduto della passione del suo amore. L’amante sarebbe stata solo sua, per mesi.
La notte del 21 agosto del 1417, Marijo aveva consultato le stelle ed era partito in silenzio, come il mare che respira l’onda e che, prima di farla scivolare sulla sabbia, trattiene il fiato e l’acqua in attesa.
Alla sua sinistra Capo Verde, alla destra l’Oceano Atlantico, sotto di lui il suo amore, il mare. Inchiostro denso e corposo, accarezzava il bordo libero del não in un continuo beccheggio tranquillo e distensivo.

Tutte le sere, dopo aver allentato le vele, fissato le funi alle incudini e afforcato le ancore, una a destra e una a sinistra per assicurare alla caracca una buona tenuta, Marijo camminava lungo il ponte fino a poppa, nella sua cabina. Prendeva in mano il registro di bordo e annotava le dispense rimaste, quelle consumate, la temperatura della giornata appena passata e altri piccoli dettagli che sarebbero stati utili ad altri navigatori una volta tornato a Lagos. Poiché le correnti marine e i venti laterali potevano spingere il suo não fuori rotta, di tanto in tanto Marijo calcolava e prendeva nota delle correzioni di rotta necessarie per far avanzare l’imbarcazione verso la sua destinazione. Ogni sera riprendeva da dove aveva lasciato, facendo misurazioni e calcoli, tracciando righe e curve sulla sua carta nautica. Due settimane dopo la partenza aveva avuto un problema con il castello di prua, tanto da rischiare di immagazzinare più acqua di quanto la nave avesse potuto tollerare ed era rimasto tutto il pomeriggio ad aggottare. Un mese più tardi un forte vento contrario aveva strappato la vela del trinchetto e solo grazie all’aiuto di un veliero di passaggio era riuscito a issarla come nuova.

Anche quella sera, all’altezza di Capo Verde, solo nella sua cabina ascoltava il canto d’amore delle onde intorno al suo piccolo mondo, mentre con la penna ne annotava le note[...]--


Errore di valutazione



giovedì, 17 gennaio 2008-22:49















Muovendo i passi in un campo
di bocche di leone
il mio sguardo è inciampato
in un argenteo soffione.

Era soffice, diverso, rotondo
ma sfumato,
sensibile al mio tatto, luminoso
sincero e dorato.

Lo appoggiai alle mie labbra
e lui rispose
con un dolce ondeggiare del pappo
e le piume setose.

Lo spinsi vicino al mio cuore
con delicata premura
e, sorpresa, erano i suoi battiti
a coprire la mia paura.

Lo accolsi nel mio grembo
con un fertile amore
ed ecco, lui pianta un seme
dentro al mio cuore.

Allora gli chiesi: davvero mi vuoi
a te qui vicina?
Rispose chinando il suo stelo
alzandomi come regina.

Una dettaglio, però, avevo scordato:
era un soffione.
E questa, che a me parve solo timidezza,
era il solito vigliacco dente di leone.

Piegato si era per fuggire strisciando
a cercare protezione
fra le mani di un’altra “regina”,
il mio caro sornione.

Ma io lo riprendo, fra l’indice e il pollice,
ferita e sorpresa
e soffio sui quei capelli che ora paiono grigi
lasciandolo senza difesa.

Così, nudo, mi appare e mi fa ricordare
che è il solito banale soffione
fra tanti; gettando alle spalle la sua mediocrità,
proseguo cercando la vera rarità.