sabato 25 febbraio 2012

Sorda



Insegnami a non ascoltare
l’eco del mio passato,
la voce incatenante delle Sirene
dei miei ricordi.
Dimmi e ascolterò
come riportare sui binari
del presente quella mente
che di te mi descrive
dettagli di una dolorosa
piacevolezza.
Spiega all’anima come
disprezzare ciò che in testa
mi tortura, con che cera
e con che ali sorvolare
il labirinto, lontano dal fuoco.
Chiedi ai miei pensieri
di non ingannare il mio cuore.
Parla finché con gli occhi chiusi
io possa vedere che tu
non sei più in me.

(31 marzo 2009)

giovedì 16 febbraio 2012

Un amore di carta











I ricordi abitano la mia mente,
sembrano seguire una melodia
nel mio futuro, nel mio passato,
senza un vero tempo, niente.

Mi sorridono, mi chiamano
ecco, seguo il loro ritmo.
A volte ad un bivio mi accorgo,
non sono loro che mi amano.

Mi circondano pareti di carta,
quel sorriso è una nuvola,
gli occhi due fili d'erba,
la mia realtà di ricordi è morta.

Una storia intera nel mio pugno,
si spegne al mio risveglio,
ma è un dolce segreto eterno
che ogni volta vive nel mio sogno.


(5 maggio 2010)

Il Navigatore (fine)



--Il mare aveva tradito Marijo, il suo amato fedele, mettendosi a flirtare con il vento e questo tradimento, questo contatto passionale fra l’acqua, l’umidità e i vortici d’aria avevano anticipato il monsone, il quale non aveva perso tempo e, adulando le onde, seducendo le nuvole, avvolse il mare di una passione violenta e bagnata, scaricando tutt’intorno al não piogge furenti. Eccitato, il mare gonfiò le sue armi di seduzione, le onde, che raggiunsero altezze inimmaginabili, quasi a voler abbracciare l’uragano che cresceva come ponte fra il cielo innamorato e  l’acqua stuzzicata. Al centro di questo tradimento, la nave di Marijo, confusa, si piegava sempre più pericolosamente e da una parte e dall’altra, in avanti, all’indietro, le vele lacerate dal vento impetuoso, l’albero maestro atterrato dalle onde frenetiche. Ora Marijo capiva le gocce di sale, comprendeva le lacrime di avvertimento e guardava affascinato quella comunione che lo circondava e scusava la sua amata, perché, sì, non aveva colpa che si era lasciata andare ad un’altra passione. In effetti lui non aveva saputo ascoltarla quella volta, non aveva compreso le sue parole e dunque era giusto che lei lo punisse a quel modo e per farsi perdonare, il corpo interamente bagnato dal suo amore e dall’altro, lo sguardo spaventato da tanta violenza, il cuore stretto nell’impotenza, così vicino alla fine prese la decisione più romantica, la prova d’amore più esplicita che poteva dedicare al suo amore, per farle capire che, ancora, anche così, continuava ad amarla. Spinto da una brusca inclinazione dello scafo al bordo della nave, non cercò appigli, ma si lasciò sbattere fra le onde, ora con il cuore ebete di affetto, lo sguardo perso di un amante che si lascia accarezzare, finalmente unendosi a pieno con la sua adorata, parlandole per l’ultima volta, scusandola, scusandosi, baciandola con passione ora che sapeva che l’avrebbe avuta per sempre e, amandosi così con il mare, raggiunse ciò che due amanti pongono a capo di tutti i loro desideri, abbracciarsi per l’eternità.  




FINE--

Ti ricordo













Ti ricordo in ogni momento
Quando dentro piango e i miei occhi sorridono

Ti ricordo mentre attraverso il tempo
E lo spazio s’immobilizza

Ti ricordo quando l’aria estiva
Mi scalda le labbra,
quando la sera mi mostra le stelle,
quando il dovere mi chiama al lavoro,
quando attraverso la strada asfaltata

Ti ricordo mentre una volpe
Si nasconde nell’erba,
mentre intorno il mondo
cade a gocce nei tuoi occhi
e io in loro


(20 luglio 2007)

Il Navigatore (parte 4)



--Quando Marijo si sentiva solo o deluso dalla sua vita terrestre, o semplicemente quando gioiva per qualche soddisfazione, il mare era sempre lì ad aspettarlo per accogliere le sue parole, comprenderle nei suoi abbracci sinusoidali, caricarle di significato gonfiandole nelle sue onde e rispedire a riva la sua risposta, stendendola sul bagnasciuga ai piedi del suo migliore amico. Allo stesso modo, Marijo era presente quando l’acqua e il suo sale avevano bisogno di uno sfogo e gli si concedeva totalmente, lasciando il suo corpo disteso fra le onde e permettendo a queste di sussurrargli nelle orecchie tutti i loro segreti. 
Camminando sul ponte, lungo il bordo della piccola nave, interrogava le onde. Queste, permalose, frustavano lo scafo schizzandogli il viso di sale. “Mi stai schiaffeggiando?”, pensava Marijo, rivolgendosi al mare. E si accarezzò la guancia, raccogliendo un po’ di amorevole umidità. Sfregò l’indice con il pollice guardandoli da vicino, come a voler analizzare le gocce e scoprire attraverso queste il messaggio che la sua amante le stava mandando. Ma l’unica cosa che poté concludere fu che la sua pelle assorbiva più in fretta di quanto immaginasse e che l’acqua penetrava fra le screpolature della sua mano come la pioggia in un terreno arso dalla siccità. Così, non capiva che quelle gocce erano lacrime, le lacrime che solo una donna innamorata del suo uomo riesce a piangere con tanta sincerità.
Fu in quell’attimo che Marijo, alla sua sinistra, riuscì a vedere distintamente, alla luce del tramonto, il profilo di Capo Verde. A passo spedito raggiunse il timone e, fra mille incomprensibili calcoli mentali e rotte e coordinate, virò a manca con un gesto deciso delle mani, incrociando l’avambraccio destro sul sinistro più volte, fino a indirizzare il suo não a sud-est, verso Rio Congo, verso il finis terrae, verso le Indie. La nave era in ritardo, a fine settembre avrebbe dovuto trovarsi già ben oltre Elmina. Ma, si sa, per due amanti il tempo non esiste e anzi, se esistesse, scorrerebbe molto più lentamente, permettendogli di rimanere il più a lungo possibile vicini, inseparabili. Così Marijo si era lasciato trasportare dal suo amore e non dai venti, frenando la velocità della nave per godere fino in fondo ogni singolo istante che il tempo gli concedeva di passare lì, al centro della sua amante, fra le sue braccia, fra i suoi sospiri, i suoi sguardi carezzevoli, i suoi occhi turchini, la sua pelle vellutata. Ma il tempo non aspetta gli amanti, non si frena e trascina dietro di sé tutto il suo mondo, senza adattarsi alle necessità di nessuno, e con sé porta la notte e il giorno, i mesi, le stagioni e, soprattutto per un navigatore, i venti. Il tradimento è sempre in agguato, per due persone che si amano. Per quanto amore ci possa essere, per quanto profondo esso sia, l’imprevisto è elemento inevitabile nella vita degli esseri viventi, così come nella vita della natura e, fra i venti, i monsoni sono quanto di più imprevedibile le stagioni possano offrire, sono il periodo dell’ambiguità, il volubile che si fa tangibile. Ecco perché, nonostante non fossero nemmeno giunti i primi giorni di ottobre, il monsone invernale, quell’anno, aveva deciso di arrivare, inaspettato, violento, carico di nubi tronfie e scure, bagnate ed estese. L’acqua del mare liberava tutto il calore che aveva accumulato durante l’estate, offrendolo senza pudore alla fredda atmosfera al di sopra della sua superficie. Aspirando così l’umidità, formava una coperta di nuvole sopra la quale i venti cominciarono a giocare fra di loro ad altissima velocità dando alle nubi un movimento a spirale, e sotto la quale lei, l’acqua del mare, diede inizio a una danza a imitazione della ballata superiore[...]--

Recensire...



lunedì, 9 marzo 2009-12:43 

La grandissima scrittrice Nicla Morletti ha recensito il mio romanzo!
Una nuova occasione per crescere con l'aiuto di grandi personaggi della letteratura italiana!
Un GRAZIE sincero ed onorato a Nicla.





    LA RECENSIONE DI NICLA MORLETTI


Un bel libro dallo stile fluido e accattivante. Il "memoriale di un cuore errante" che si fa ricordare.
Resta impressa la figura di Kalindi, che ci appare come una visione, mentre uno stormo di poiane si alza in volo nella campagna granadese e le notti sono troppo brevi e troppo fredde nel momento in cui qualcosa, dentro, lacera il cuore.
Un libro denso di sensazioni, una metafora affascinante, un viaggio alla ricerca del sé, verso quel sentiero indefinibile tracciato dai sensi e dall'anima che conduce alla scoperta dell'io più profondo.

Efesto in Umbria- quando gli Dèi si arrabbiano


giovedì, 20 novembre 2008-23:44


Efèsto si asciugò il sudore che gli bagnava tutto il viso. Nella fucina la temperatura era altissima, al punto che, non potendo essere contenuta tutta nel laboratorio, rendeva l’atmosfera intorno all’Etna estremamente calda, fino a diffondersi nelle regioni più a Sud della penisola. I Ciclopi intorno a lui lavoravano sodo, soprattutto da quando l’eccellente Cedalione se ne era andato.
La fatica di Efèsto era aggravata dalla sua deformità: essere claudicante non aiutava gli spostamenti da un focolare all’altro, dall’incudine al maglio. Tuttavia, Efèsto era un gran lavoratore, il più grande fabbro ferraio che l’Olimpo avesse mai avuto e lavorare il ferro tutto il giorno, forgiare i sandali alati per Hermes, gli scudi per Zeus, le cinture e le armature per le divinità, i pezzi di ricambio per il carro di Helios, le frecce per Eros e miriadi di spade e battacchi gli teneva la mente occupata e gli impediva di rimuginare sulla cattiveria di sua madre Era, la quale, vergognandosi della sua bruttezza alla nascita lo aveva scagliato giù dall’Olimpo procurandogli quelle deformità che tanto aggravavano il suo duro lavoro. Fortunatamente aveva trovato una moglie adorabile, una donna che sapeva amarlo così com’era. Afrodite era il suo nome ed Efèsto riusciva a chiudere il laboratorio a sera tarda solo pensando che avrebbe poi raggiunto la sua sposa.
Quel giorno era una data speciale: il loro anniversario di matrimonio. Così, tra spade e scudi, Efèsto stava cercando il tempo per modellare anche un prezioso anello per Afrodite. Prese dal magazzino una lastrina di oro bianco, vi disegnò sopra un motivo floreale, praticò i fori e segò via le aree da togliere. Marcò il bordo con la lama di un seghetto e regolarizzò i solchi decorativi. Modellò fiori e gambo con un bulino e, per completare la sua opera d’amore, piegò la lastrina da anello saldandone le estremità. Il tocco finale: praticando un foro in uno dei fiori incisi, riuscì ad incassare un meraviglioso rubino.
Soddisfatto della sua opera, strofinò l’anello con della carta ruvida e lo incastrò in un piccolo scrigno di velluto. Quale luce avrebbe visto negli occhi di Afrodite quella sera!
Così, fantasticando sulla gioia che avrebbe recato alla moglie, Efèsto portò a termine il lavoro in fucina, spronando con allegre incitazioni i suoi aiutanti Ciclopi. Trasportato dall’entusiasmo, riordinò anche la Stanza delle Spade, posizionandole in ordine dalla più piccola alla più grande, dalla meno tagliente a quella più pericolosa, dalla più sottile alla più pesante.
Eccitato, decise di rincasare in anticipo e, prima che il carro di Helios ebbe trainato il Sole all’estremità dell’Occidente, chiuse la fucina e si affrettò verso casa.
Questo fu il suo errore, o forse l’errore fu di non essere mai rientrato in anticipo. Perché quando fu nei pressi della sua dimora, i suoi pensieri furono interrotti da un bisbigliare sommesso: era davvero Afrodite quella donna che accarezzava suo fratello Ares? Erano le sue braccia che cingevano la vita di un altro uomo?
Se avesse potuto, Efèsto si sarebbe trasformato in pietra, più dura dei suoi metalli, per non dover subire oltre quel dolore che affinava la lama nel suo cuore. Ma, poiché era il Dio dell’artigianato e non delle metamorfosi, tramutò in fretta quella sofferenza in una rabbia cieca e distruttiva. Tuttavia, anziché lanciarsi addosso ai nemici, tornò sui suoi passi e, deciso, riaprì la fucina pronto a realizzare un’arma degna della sfida che i suoi occhi avevano scoperto.
Mise a soqquadro l’intera Stanza delle Spade e, furioso, zoppicava da un’incudine a un’altra. E fu proprio mentre assemblava i materiali e le varie parti della sua invenzione che, riproponendosi nella sua mente l’immagine dell’adultera, in un accesso d’ira prese a scagliare qualsiasi arma le sue mani trovavano per il laboratorio. La collera era ad un livello tale che sembrava materializzarsi nelle sue braccia e dotarlo di una forza erculea, tanto da far arrivare spade e martelli a miglia di distanza.
La leggenda vuole che uno di questi atterrasse proprio ai piedi del Monte Cucco, in Umbria, una regione così lontana dalla rabbia di Efèsto, ma sufficientemente vicina per la sua violenza. Penetrò nella piccola muraglia di rocce che protegge la vallata e l’anfiteatro di lecci alle sue spalle, tanto che Helios, il Dio del Sole che tutto vede, gli diede il nome di “Spaccatura delle Lecce”.
Ancora oggi è possibile immaginare come la furia del Dio abbia potuto fendere la roccia, ammirando la cornice evocativa di pietra grigia e lo scrigno verde in primavera e bruciato in autunno che fa capolino dalla “spaccatura”, quasi volesse capire, curioso, il motivo di tanta impetuosità.
Si sa, i miti greci hanno sempre affascinato i lettori più fantasiosi e la “Spaccatura delle Lecce” offre un’occasione pittoresca per poter gustare la storia non solo nei libri e nelle letterature, ma anche nel paesaggio che ci circonda. Se poi si aggiunge tutto il contorno, l’opportunità diventa davvero allettante. La serendipità è una peculiarità dei viaggi e delle scoperte e il Parco di Monte Cucco intende offrire questo all’esploratore più intrepido come al forestiero più pacato.
La rivelazione è duplice, un po’ come la Sacher Torte: si assapora già con gli occhi quella glassa di cioccolato fondente che lascia intendere una cremosità quasi sensuale e le nostre papille gustative si preparano a mordere un concentrato di cacao, quando vengono sorprese dall’inconsueto strato di marmellata. Sulle prime ci si stupisce, poi ci si lascia coinvolgere da quel vortice di sapori che solo la Sacher sa amalgamare.
Allo stesso modo, si arriva nel Parco per contemplare l’opera di un Dio nella roccia e poi si scopre un intero mondo da esplorare. Le attrattive del Parco sono molteplici, ma non mi riferisco alle “classiche” passeggiate fra i sentieri tracciati, o alle diverse specie di piante e di animali efficacemente descritte nei pannelli lungo la strada. Ognuno sa trovare i suoi incanti e le sue magie, le sue scoperte, in linea con le proprie ricerche. Entrando nel Parco, oltre la Spaccatura, smarrendo la “diritta via” e costruendosi un proprio percorso, ci si accorge di come la natura di quel monte sia in grado di darci particolari e sfumature che le cartine non riportano.
Scoprire il Parco non è prerogativa di naturalisti romantici o geologi studiosi. E’ ritrovare in noi un istinto primordiale come può essere quello che ci spinge a cercare e a motivare o semplicemente “otiare” fra gli alberi e le pietre per comprendere quanto sia spaventosamente scioccante scoprire la perfezione di una foglia, il mutare dei colori della vegetazione, individuare quello scoiattolo che solo nei cartoni animati si era conosciuto, sentire la vita non più sotto una pelle umana, ma anche fra le cortecce rugose.
Siamo così abituati alla vita civilizzata che dimentichiamo che intorno a noi la natura continua ad esistere, a seguire il proprio corso, i propri ritmi. Si dice tanto che l’uomo ha sopraffatto l’ambiente ma, poiché il padrone alla fine è l’unico vero servo, continuiamo ad essere noi che dipendiamo da stagioni scandite dal territorio, noi che dobbiamo adattarci agli sbalzi di temperatura, ai pendii, alle curve delle colline, alla composizione dei terreni, al profilo delle montagne.
Il Parco del Monte Cucco “non si è ritrovato a Sigillo”, ma è Sigillo che vi si è incastrato. Così come è la spada di Efèsto che si è conficcata nella muraglia di rocce e non la Spaccatura che gli è corsa incontro.
Siamo noi che possiamo muoverci verso i doni che il paesaggio ci regala e la Spaccatura delle Lecce è un omaggio davvero raro.