giovedì, 20 novembre 2008-23:44
Efèsto si asciugò il sudore che gli bagnava tutto il viso. Nella fucina la
temperatura era altissima, al punto che, non potendo essere contenuta tutta nel
laboratorio, rendeva l’atmosfera intorno all’Etna estremamente calda, fino a
diffondersi nelle regioni più a Sud della penisola. I Ciclopi intorno a lui
lavoravano sodo, soprattutto da quando l’eccellente Cedalione se ne era andato.
La fatica di Efèsto
era aggravata dalla sua deformità: essere claudicante non aiutava gli
spostamenti da un focolare all’altro, dall’incudine al maglio. Tuttavia, Efèsto
era un gran lavoratore, il più grande fabbro ferraio che l’Olimpo avesse mai
avuto e lavorare il ferro tutto il giorno, forgiare i sandali alati per Hermes,
gli scudi per Zeus, le cinture e le armature per le divinità, i pezzi di
ricambio per il carro di Helios, le frecce per Eros e miriadi di spade e
battacchi gli teneva la mente occupata e gli impediva di rimuginare sulla
cattiveria di sua madre Era, la quale, vergognandosi della sua bruttezza alla
nascita lo aveva scagliato giù dall’Olimpo procurandogli quelle deformità che
tanto aggravavano il suo duro lavoro. Fortunatamente aveva trovato una moglie
adorabile, una donna che sapeva amarlo così com’era. Afrodite era il suo nome
ed Efèsto riusciva a chiudere il laboratorio a sera tarda solo pensando che
avrebbe poi raggiunto la sua sposa.
Quel giorno era una
data speciale: il loro anniversario di matrimonio. Così, tra spade e scudi,
Efèsto stava cercando il tempo per modellare anche un prezioso anello per
Afrodite. Prese dal magazzino una lastrina di oro bianco, vi disegnò sopra un
motivo floreale, praticò i fori e segò via le aree da togliere. Marcò il bordo
con la lama di un seghetto e regolarizzò i solchi decorativi. Modellò fiori e
gambo con un bulino e, per completare la sua opera d’amore, piegò la lastrina
da anello saldandone le estremità. Il tocco finale: praticando un foro in uno
dei fiori incisi, riuscì ad incassare un meraviglioso rubino.
Soddisfatto della sua
opera, strofinò l’anello con della carta ruvida e lo incastrò in un piccolo
scrigno di velluto. Quale luce avrebbe visto negli occhi di Afrodite quella
sera!
Così, fantasticando
sulla gioia che avrebbe recato alla moglie, Efèsto portò a termine il lavoro in
fucina, spronando con allegre incitazioni i suoi aiutanti Ciclopi. Trasportato
dall’entusiasmo, riordinò anche la Stanza delle Spade, posizionandole in ordine
dalla più piccola alla più grande, dalla meno tagliente a quella più
pericolosa, dalla più sottile alla più pesante.
Eccitato, decise di rincasare
in anticipo e, prima che il carro di Helios ebbe trainato il Sole all’estremità
dell’Occidente, chiuse la fucina e si affrettò verso casa.
Questo fu il suo
errore, o forse l’errore fu di non essere mai rientrato in anticipo. Perché
quando fu nei pressi della sua dimora, i suoi pensieri furono interrotti da un
bisbigliare sommesso: era davvero Afrodite quella donna che accarezzava suo
fratello Ares? Erano le sue braccia che cingevano la vita di un altro uomo?
Se avesse potuto,
Efèsto si sarebbe trasformato in pietra, più dura dei suoi metalli, per non
dover subire oltre quel dolore che affinava la lama nel suo cuore. Ma, poiché
era il Dio dell’artigianato e non delle metamorfosi, tramutò in fretta quella
sofferenza in una rabbia cieca e distruttiva. Tuttavia, anziché lanciarsi
addosso ai nemici, tornò sui suoi passi e, deciso, riaprì la fucina pronto a
realizzare un’arma degna della sfida che i suoi occhi avevano scoperto.
Mise a soqquadro
l’intera Stanza delle Spade e, furioso, zoppicava da un’incudine a un’altra. E
fu proprio mentre assemblava i materiali e le varie parti della sua invenzione
che, riproponendosi nella sua mente l’immagine dell’adultera, in un accesso
d’ira prese a scagliare qualsiasi arma le sue mani trovavano per il
laboratorio. La collera era ad un livello tale che sembrava materializzarsi
nelle sue braccia e dotarlo di una forza erculea, tanto da far arrivare spade e
martelli a miglia di distanza.
La leggenda vuole che
uno di questi atterrasse proprio ai piedi del Monte Cucco, in Umbria, una
regione così lontana dalla rabbia di Efèsto, ma sufficientemente vicina per la
sua violenza. Penetrò nella piccola muraglia di rocce che protegge la vallata e
l’anfiteatro di lecci alle sue spalle, tanto che Helios, il Dio del Sole che
tutto vede, gli diede il nome di “Spaccatura delle Lecce”.
Ancora oggi è
possibile immaginare come la furia del Dio abbia potuto fendere la roccia,
ammirando la cornice evocativa di pietra grigia e lo scrigno verde in primavera
e bruciato in autunno che fa capolino dalla “spaccatura”, quasi volesse capire,
curioso, il motivo di tanta impetuosità.
Si sa, i miti greci
hanno sempre affascinato i lettori più fantasiosi e la “Spaccatura delle Lecce”
offre un’occasione pittoresca per poter gustare la storia non solo nei libri e
nelle letterature, ma anche nel paesaggio che ci circonda. Se poi si aggiunge
tutto il contorno, l’opportunità diventa davvero allettante. La serendipità è una peculiarità dei viaggi e delle
scoperte e il Parco di Monte Cucco intende offrire questo all’esploratore più
intrepido come al forestiero più pacato.
La rivelazione è
duplice, un po’ come la Sacher Torte: si assapora già con gli occhi quella
glassa di cioccolato fondente che lascia intendere una cremosità quasi sensuale
e le nostre papille gustative si preparano a mordere un concentrato di cacao,
quando vengono sorprese dall’inconsueto strato di marmellata. Sulle prime ci si
stupisce, poi ci si lascia coinvolgere da quel vortice di sapori che solo la
Sacher sa amalgamare.
Allo stesso modo, si
arriva nel Parco per contemplare l’opera di un Dio nella roccia e poi si scopre
un intero mondo da esplorare. Le attrattive del Parco sono molteplici, ma non
mi riferisco alle “classiche” passeggiate fra i sentieri tracciati, o alle
diverse specie di piante e di animali efficacemente descritte nei pannelli
lungo la strada. Ognuno sa trovare i suoi incanti e le sue magie, le sue
scoperte, in linea con le proprie ricerche. Entrando nel Parco, oltre la
Spaccatura, smarrendo la “diritta via” e costruendosi un proprio percorso, ci
si accorge di come la natura di quel monte sia in grado di darci particolari e
sfumature che le cartine non riportano.
Scoprire il Parco non
è prerogativa di naturalisti romantici o geologi studiosi. E’ ritrovare in noi
un istinto primordiale come può essere quello che ci spinge a cercare e a
motivare o semplicemente “otiare” fra gli alberi e le pietre per
comprendere quanto sia spaventosamente scioccante scoprire la perfezione di una
foglia, il mutare dei colori della vegetazione, individuare quello scoiattolo
che solo nei cartoni animati si era conosciuto, sentire la vita non più sotto
una pelle umana, ma anche fra le cortecce rugose.
Siamo così abituati
alla vita civilizzata che dimentichiamo che intorno a noi la natura continua ad
esistere, a seguire il proprio corso, i propri ritmi. Si dice tanto che l’uomo
ha sopraffatto l’ambiente ma, poiché il padrone alla fine è l’unico vero servo,
continuiamo ad essere noi che dipendiamo da stagioni scandite dal territorio,
noi che dobbiamo adattarci agli sbalzi di temperatura, ai pendii, alle curve
delle colline, alla composizione dei terreni, al profilo delle montagne.
Il Parco del Monte
Cucco “non si è ritrovato a Sigillo”, ma è Sigillo che vi si è incastrato. Così
come è la spada di Efèsto che si è conficcata nella muraglia di rocce e non la
Spaccatura che gli è corsa incontro.
Siamo noi che possiamo
muoverci verso i doni che il paesaggio ci regala e la Spaccatura delle Lecce è
un omaggio davvero raro.